martedì 10 dicembre 2013

Il quadro capovolto - Seconda parte



Bob Rattazzo parcheggiò sul piazzale di Niguarda. L’ edificio dell’ospedale sotto il sole d’agosto pareva un quadro di De Chirico. Seguendo le indicazioni s’inoltrò in un  corridoio deserto  rischiarato da una luce verdognola. Calcinacci e macerie a  terra, muri scrostati, tubi di gomma grigi per l’accumulo  di polvere, plastica opaca a riparare gli spifferi dei vetri rotti, carrozzine per invalidi senza ruote, grossi sacchi di plastica nera pieni di chissà cosa. Sospettò di camminare  in un film  di Lars von Trier.
La sirena di un’ambulanza fischiava  mentre Bob finalmente pigiava il tasto dell’ascensore. Salì al secondo piano e si fermò alla  stanza numero 11, indossò un sorriso e fece capolino.
Eccolo  il mio amico Denis, come un extraterrestre durante un esperimento sulla terra, pensò Bob quando lo vide. Era steso nel letto, un tubo grigio  scendeva da una  sacca lattiginosa e spariva sotto le coperte, la maschera dell’ossigeno gli schiacciava il volto.
“Phantomas, ancora a letto?”
Denis girò gli occhi  verso la finestra. Il sole filtrava dalle tende gialle e un triangolo di luce cadeva sulla coperta.
Bob calò la tapparella a metà: “Così va meglio, vero?”
 “Sì” fece con lo sguardo.
Arrivò un infermiere e gli tolse la maschera dell’ossigeno.
La malattia che gli aveva colpito i muscoli, distendeva i lineamenti e Denis sembrava ringiovanito
“Non sforzarti a parlare.”
“Sei riuscito   a  trovare  il quadro?” chiese Denis con un sussurro.
“ Forse. Ti ricordi  Prevost, quel gallerista rampante?  Era compagno di scuola del figlio dell’avvocato Gelmoni. Johnny Ricci ha lavorato per  lui. Vedrai quando esci di qui  avrò rintracciato il quadro e andremo insieme a controllare se è capovolto.
“Balle ” rispose.

Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare. Alzò lo sguardo dalle bozze che stava correggendo e incrociò gli occhi di sua moglie sulla soglia: “Mi stavi spiando?” Bob le sorrise e sollevò la cornetta.
“Chi era?” domandò lei.
“Gianni Prevost, ci dobbiamo vedere.”
In galleria esponeva un artista coreano ma Bob  trovò interessante solo la presentazione della mostra.
“Scusa il ritardo” disse Prevost quando arrivò. Scoppiava nei vestiti e aveva i capelli stretti in un codino.
“Onorato della visita” aggiunse e ossequioso  lo fece accomodare nel suo studio.
“So che sei stato compagno di scuola del figlio del collezionista  Gelmoni, vorrei rintracciarlo.”
“Perché?”
“Il padre aveva dei quadri di Denis Lazzaro che vorrei recuperare.”
“Come mai?”
“E’ una storia lunga  che comincia nel 76.  Quello fu un brutto periodo per Denis, era un po’ alterato quando firmò il quadro. Sosteneva che si poteva guardare dal lato che  piaceva a chi lo possedeva. Ma quando l’ha visto sulla parete  della sala riunioni dell’avvocato,l’arancione a sinistra, ha deciso che quella era la visione corretta dell’opera e negli anni è diventata una fissazione. Ogni tanto andava a trovarlo, così controllava. Mi ha lasciato in eredità la sua ossessione. Mi piacerebbe ricomprarlo. Puoi mettermi in contatto con gli eredi?”
 “Vedrò cosa posso fare” rispose Prevost e  gli allungò una cartelletta blu che era sul tavolo.
“ E’ un progetto su Picasso. Con la tua consulenza si può puntare a Palazzo Reale”.
 “E’ un progetto molto ambizioso sarà difficile recuperare molte opere.”
“Ma per te non sarà un problema, sei nel giro da quarant’anni”.
“Devo pensarci, ti farò sapere” e lo salutò.


Bob camminava verso il  Giamaica e ricordò quel giorno del ‘75, le mani dei socialisti già allungate su Brera, quando chiamò l’ambulanza e Denis se la cavò.
Ma sono lontani i tempi in cui la sera nel quartiere, su un banchetto improvvisato all’angolo della strada, potevi comprare un quadro o il disegno di un promettente artista. Ora la notte cala sui tavolini delle chiromanti.
“Che ciccione presuntuoso, affiancare te e  Spazio ’70 al suo mostrificio, suona come un ricatto” esclamò Johnny davanti a un Negroni.
“Recupero il quadro, poi si vedrà.”
Qualche giorno dopo verso le quattro Bob riscendeva  i gradini della galleria Prevost.
C’era solo Anna che  in un angolo, dipingeva. Barattava quello spazio di lavoro  sbrigando commissioni di segreteria e  garantiva una presenza quando Gianni non c’era.
Bob si avvicinò ad osservare il lavoro di Anna; sembrava  in trance e lui si mise seduto ad aspettare.
 “Vedi com’è cambiato tutto” disse improvvisamente emergendo dalla tela .
 “ Bastavano tre pennellate lì, in basso”.  L’emozione di lei era  così intensa che si trasformò in pianto.
Anche Bob provò una forte emozione  per quelle le lacrime.
Bob era ancora commosso quando Prevost arrivò. Era in ritardo come al solito e sembrava  un pinguino nell’abito nero e la camicia bianca.
“Ha la lacrima facile quella” rispose e agguantò la cartelletta blu che Rattazzo aveva appoggiato sulla scrivania e mentre leggeva  il suo corpo si allargava debordando dalla poltrona.
 “Molto interessante, vedrai  l’assessore scucirà i soldi  e Palazzo Reale. Il tuo nome è una garanzia.”
“Hai rintracciato il rampollo Gelmoni?”
“ I quadri di Denis Lazzaro  non sono ancora stati venduti l’ho saputo dalla figlia. Pare siano nella casa di Calice Ligure e quella casa l’ha ereditata il fratello."
 “Quando possiamo andare?”
 “Ehi, calma, il   ragazzo è in viaggio.”  Rispose frenando l’entusiasmo di Bob.


Era aprile, piovigginava. Sotto l’impermeabile di Johnny si intravedeva  la Leica. Bob chiuse l’ombrello quando vide arrivare la macchina di Prevost che scese e si tolse la giacca. Saltò un bottone dalla  sua camicia,  rotolò sul marciapiede.
“Mangi troppi dolci" gli disse Johnny accomodandosi sul sedile davanti.
“Ancora a pellicola vai? Nell’era di internet e della banda Larga? Cosa aspetti a passare al digitale!”
“ La banda siete tu e l’assessore. Tu non sai rinunciare ai dolci, io non so rinunciare all’odore della pellicola, della camera oscura e  delle donne.”
Bob seduto sul sedile posteriore non rise. Da trent’anni non vedeva  più quel quadro e si sentiva come chi va incontro a un vecchio amico perso dopo  tanto tempo e teme di trovarlo malconcio.
“Denis era un grande, ma che caratteraccio. L’ho incontrato una volta e mi ha mandato subito a quel paese. Come facevi a sopportarlo, Bob?” domandò Prevost.
“Semplice. Gli voleva bene.” Rispose Johnny al suo fianco.
“Che invidia mi fate, voi che avete vissuto gli anni sessanta. Io devo accontentarmi dei racconti.”
“Ehi Bob, gliela raccontiamo quella dei cioccolatini?”
“Lascia stare!” rispose irritato.
Johnny lo osservò  dallo specchietto:  la  barba grigia e della  chioma solo pochi ricci rimasti a incoronare il collo. Ma l’energia, che conquistò il sindaco di Milano, insieme allo sguardo schietto erano rimasti gli stessi.
Arrivati a Calice Ligure, Prevost telefonò e dieci minuti dopo nella piazzetta del paese si presentò Luca Gelmoni,  alto e abbronzato. L’espressione della bocca e il profilo ricordarono a Bob il  padre.
Si accodarono alla sua macchina e iniziarono a salire una strada con molti tornanti. La casa gialla sbucò improvvisa dietro una curva.
 “E’ disabitata da tanto, passa solo il contadino a dar da mangiare ai gatti.” Disse Gelmoni trafficando con le chiavi.
Tutti entrarono. Bob invece si mise seduto  sui gradini dell’ingresso. Un gatto nero gli si avvicinò.
Johnny tornò dopo un po' e gli allungò la mano. "Cosa fai lì seduto, dai entra.”
Bob buttò la sigaretta schiacciandola  col piede. Pensò alle Marlboro di Denis, si sollevò da terra e varcò la soglia.
Il padrone di casa aveva disposto sul tavolo un po’ di focaccia e due bottiglie di vino. Stava  accendendo il camino  quando dalla finestra della cucina entrò il gatto.
I quadri erano  in soggiorno coperti da un lenzuolo, Prevost lo tolse  e cinque tele vennero allineate in soggiorno.
“Qual è il quadro che cercava ?” chiese il padrone di casa.
“Non c’è”.
“Come non c’è, sono tutti i  Lazzaro che erano nello studio di papà”.
“Era appeso nella sala riunioni e qui non c’è.”
“Nella sala riunioni c’era una natura morta che ha preso mia sorella”.
Johnny e Bob si lasciarono  cadere sul divano.
Il gatto  passò, strusciandosi ai loro piedi.
“Ci sono altri quadri in casa, mio padre li aveva trasferiti qui negli ultimi tempi. Faccia un giro al piano di sopra.”
Bob salì le scale. Sbucò in un corridoio  illuminato da  una parete di vetro che si apriva  sullo  studio con vista alla rocca di Perti. In fondo sulla parete stretta, una  piccola tavola di legno massello era attraversata da due sottili linee, arancione e blu cobalto, che sottolineavano le venature. Si soffermò a leggere la firma: Fiannacca, 1977. Sulla parete lunga  era appeso  uno splendido Scanavino dai toni grigi  al cui fianco cantava   un gigantesco gallo, dipinto su linoleum opera di  Aldo Mondino. Due Crippa con cerchi rossi e gialli su sfondo blu, risaltavano tra i  tanti libri.
Il corridoio continuava con una svolta sul lato  nord della casa e finiva con una porta. Una porta di noce  con appesa  una targa  di smalto bianco. Buon riposo, c’era scritto. L’aprì. Sentì il gatto scivolargli tra le gambe, poi un tonfo leggero. La camera era buia. Solo un taglio di luce dalla persiana rotta.
Spalancò la finestra. Il gatto nero era sul letto e lo guardava.
 “Clic” fece la Leica di Johnny alle sue spalle.
Bob si voltò e vide il quadro.



Questo mezzo racconto partecipa all'EDS colori (la prima parte è qui)
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11 commenti:

  1. La maestria con cui padroneggi personaggi maschili mi fa restare senza fiato. Il tuo racconto, nella sua essenzialità, è molto denso e suggerisce immagini a ripetizione, ciascuna illuminata da sprazzi di colore che sembra di poter toccare. Incantevole.

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  2. Melusina, i tuoi commenti sono per me fondamentli perchè incoraggianti. Grazie

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  3. A cercare qualcosa direi i nomi... la prima parte, comunque, mi aveva trasportato maggiormente per la sua "uniformità" :-)

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  4. A me anche questa seconda parte è piaciuta. Hai l'abilità di una romanziera, infatti tieni il tempo benissimo e a lungo respiro, mentre per la maggior parte noi che scriviamo racconti tendiamo ad essere molto più asciutti e brevi. Almeno io lo faccio per paura che la storia mi sfugga e sbandi.

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    1. Grazie Lillilina, ma romanziera no. Prolissa. I racconti devono essere brevi e fulminanti come il tuo Al Cappone.

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  5. Bel pezzo denso e grande foto.
    Si respira Milano proprio.

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  6. Che ritmo! la tua scrittura ha qualcosa di Henry Miller nella Parigi degli anni venti...

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  7. "Che invidia mi fate, voi che avete vissuto gli anni sessanta. Io devo accontentarmi dei racconti".

    soprattutto dei tuoi. :-)

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